“Napoli Milionaria!” per la regia di Francesco Rosi al teatro Quirino di Roma

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Francesco Rosi, dopo quarant’anni, torna alla regia teatrale portando in scena uno dei capolavori di Eduardo De Filippo: “Napoli Milionaria!”. E lo fa nel suo stile, con mano leggera e rispettosa del testo originale, senza la minima intenzione di voler sovrapporre la propria firma, pur prestigiosa (in film-capolavoro come: Salvatore Giuliano, Mani sulla città, Il Caso Mattei, Cristo si è fermato a Eboli, La tregua) a quella di un altro grande autore e portavoce della cultura partenopea ormai assurto a patrimonio planetario. Risultato di tutto ciò, è che la recitazione acquisisce uno status di primissimo piano, quasi a voler significare che il primato del teatro eduardiano produce in sé “l’effetto teatrale”, in una sintesi che quindi non va aggredita ma accompagnata sulla soglia di casa come si fa con l’amico più caro.

Del resto, quest’attenzione estrema per il tessuto interpretativo ben si attaglia alle grandissime capacità di Luca De Filippo, il tranviere disoccupato Gennaro Jovine, nella parte che fu del padre, di Mariangela D’Abbraccio, sua moglie Amalia, erede delle grandissime Regina Bianchi e Isa Danieli, di Chiara Baffi, la figlia Maria Rosaria, una sedotta e abbandonata, di Gigi Savoia, il contrabbandiere Errico “Settebellizze”, spasimante di Amalia, e ancora di Giuseppe Russo (Amedeo), Marco Manchisi (Peppe “’o cricco”), Massimo De Matteo (il ragioniere), Luca Saccoia (operaio del gas), Ivan De Paola (Pascalino “’o pittore”), Giuseppe Rispoli (“’o Miezo Prèvete”), Tullio Del Matto (il brigadiere Ciappa), Isabella Salvato (vicina di Amalia), Anna Morello (Assunta), Stefania Guida (“cliente” di Amalia), Laura Amalfi (Teresa), Fiorella Orazzo (Margherita) e Mario Salomone (il dottore), elementi di una compagnia davvero ben affiatata, tra i pochi capaci di non far rimpiangere i grandi interpreti del passato.

Anzi, tra loro Luca De Filippo mi ha impressionato per il doppio ruolo – per così dire – che porta in scena dapprima sostenendo un Gennaro più simile a sé, quindi più mite ed arrendevole, poi, nella parte finale e più drammatica, più simile al padre in fatto di orgoglio e determinazione. Il tutto in una dicotomia che può e deve concedersi solo a chi sia erede, come in questo caso, di una tradizione di così alto livello. Mariangela D’Abbraccio, invece, percorre con coraggio e con estrema bravura la strada della sensualità, con dei tratti assolutamente inediti rispetto alle interpretazioni che l’hanno preceduta. I suoi sguardi, gli ambigui silenzi, il suo sinuoso ancheggiare, le sue inquietudini passionali sono la vera novità della regia di Rosi. Amalia, dunque, si impone non solo come presenza matriarcale di matrice eduardiana, ma anche come donna alla ricerca di una propria sessualità. Accanto a lei Gigi Savoia non è da meno: da figura inizialmente minore, con fascino ed autorevolezza, pian piano eleva il suo piano recitativo, facendosi più composto è audace assieme, avvolgendo di sentimenti sia un’Amalia sempre più arrendevole che un pubblico che parteggia per lei. Almeno sino al momento in cui Gennaro, ritenuto disperso o forse morto, fa ritorno dal fronte di guerra, col suo carico di racconti da reduce che più nessuno vuole ascoltare dopo l’avvenuta Liberazione ed un benessere acquisito con i proventi della borsa nera. Sono le contraddizioni del dopoguerra che Gennaro vive come dramma personale, nella sintesi finale di quel “Ha da passa’ ‘a nuttata” nell’attesa fiduciosa degli eventi.

Fin qui il ruolo di regia e attori, ma sarebbe delittuoso in queste righe non evidenziare il forte contributo di Enrico Job per le scene e i costumi. Difatti, Job crea un ambiente di basso napoletano assolutamente aperto, in cui le quinte sono le camere laterali e l’ingresso della casa che comunica direttamente con il vicolo, per cui l’andirivieni chiassoso dei personaggi e assolutamente naturale come fosse uno spaccato autentico della vita di tutti i giorni di quel lontano periodo tra guerra e dopoguerra. Un periodo di forti stenti e paure che però qua e là vengono stemperate da delle folgoranti battute che fanno ridere a crepapelle, sino al finale dove invece dominano le situazioni più laceranti che ognuno di noi porterà a casa propria come perenne argomento di riflessione.

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